La responsabilità è definita solidale quando più soggetti sono chiamati a rispondere, per una violazione o comunque per un’obbligazione, in posizione di parità: in questo caso colui che adempie acquisisce un diritto di regresso nei confronti degli altri coobbligati. La responsabilità solidale è ignorata nell’ambito del diritto penale a ragione del principio di personalità della pena, mentre è frequente il suo impiego in ambito civile o amministrativo: in particolare per l’art. 2055 del Cod. Civ, secondo cui se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno; allo stesso modo sono previste alcune ipotesi di responsabilità, a fronte di violazioni amministrative, nei confronti di soggetti diversi dall’autore dell’illecito, in considerazione del particolare rapporto intercorrente tra questi e l’agente o tra questi e l’oggetto dell’azione, come ad esempio nel caso della responsabilità della persona giuridica per la condotta antigiuridica del suo dipendente o rappresentante.
Purtroppo spesso nel linguaggio comune, ma a volte anche per gli addetti ai lavori, l’espressione "responsabilità professionale" è, fallacemente, ritenuta sinonimo di "colpa professionale".
Molto interessante risulta, a nostro avviso, la seguente affermazione della psicologa Silvia Vegetti Finzi:
"La parola responsabilità deriva dal latino "respondere" quindi "rispondere" che, a sua volta deriva da "re-" indicante il ripetersi dell’azione in senso contrario, e "spondere" "promettere" quindi "fare una contropromessa" "promettere di rimando".
Responsabilità pertanto rappresenta la necessità di rispondere alle aspettative legate al proprio ruolo e l’impegno nel raggiungere gli obiettivi.
Mi è sembrato un po’ poco, tanto più che nella mia mente, assai fantasiosa, girava un’altra etimologia che gli antichi avrebbero chiamato "varroniana", vale a dire sbagliata, immaginaria, che collegava responsabilità con res, "le cose", e con pons, pondus "il peso delle cose". Mi ero fatta l’idea che volesse dire: "saper sopportare il peso delle cose". Un’etimologia del tutto scorretta, che non ha nessun fondamento ma, a dispetto della linguistica, continua a sembrarmi più pregnante di quella del dizionario, così generica, così vaga da dimenticare il coinvolgimento del corpo, l’impegno anche fisico che la responsabilità richiede a chi l’esercita, così come trascura la dimensione sociale che l’attraversa".
La responsabilità professionale non si colloca né si esaurisce nell’errore medico, ma discende dalla valutazione della condotta professionale valutata globalmente, nella considerazione che l’operato del medico debba essere guidato da principi di beneficialità, non maleficialità, rispetto della dignità e della libertà personale e dei diritti dell’uomo in toto.
Il tema della responsabilità del medico sia sotto il profilo penale sia sotto il profilo civile assume quindi carattere rilevante e strategico anche per la comprensione dell’aumento costante del contenzioso nelle due sedi.
Nel contesto giuridico Italiano la responsabilità medica continua ad essere concepita essenzialmente in chiave di responsabilità personale e colpevole del singolo operatore sanitario, trascurando i concorrenti (e nella pratica assorbenti) profili di responsabilità degli enti, imprese e strutture sanitarie, ovvero, in materia di responsabilità medica, appartiene al comune sentire l’identificazione del singolo professionista con il soggetto chiamato a rispondere, in via pressoché esclusiva e per colpa, contrattuale o extracontrattuale, dei danni prodottisi in conseguenza o comunque in connessione, all’attività terapeutica.
In realtà è chiaro ed evidente che la transizione dall’illecito alla responsabilità civile, e per effetto di questa dalla responsabilità per colpa alla responsabilità oggettiva (e dalla colpa "soggettiva" a quella "oggettivizzata"), che ha segnato l’andamento di buona parte della dottrina e della giurisprudenza Italiana negli ultimi decenni, stenta ancora a trovare piena affermazione in specifici settori come, ad esempio, quello sanitario.
Con la dicitura "responsabilità medica" si intende sottolineare che non si è in presenza di un semplice capitolo di una trattazione generale dedicata alla responsabilità del professionista ma che, di contro, si prende in considerazione un aspetto della tutela della salute dell’individuo in relazione ai pericoli connessi allo svolgimento di un trattamento sanitario.
Occorre primariamente affermare che il diritto penale va a costituirsi dall’insieme delle norme che stabiliscono gli elementi costitutivi del reato, la sua struttura, le singole ipotesi criminose e le relative sanzioni stabilite per le violazioni.
Si ha una responsabilità penale ogni qual volta un soggetto metta in atto una condotta, attiva o omissiva, prevista dalla legge come reato. L’art. 42 del Codice Penale stabilisce infatti che "nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge". Per la configurabilità del reato è pertanto necessario che sussista la coscienza e volontà della condotta (la c.d. "suitas"), ossia il necessario nesso psichico (reale o potenziale) che deve intercorrere tra l’agente e la condotta illecita affinché quest’ultima possa ipotizzarsi. Ciò è in armonia con l’art. 27 della Costituzione, ove è sancito che "la responsabilità penale è personale": tale articolo impone la responsabilità personale colpevole, e stabilisce, pertanto, il principio della colpevolezza. Con ciò si indica l’insieme dei criteri di attribuzione psicologica del fatto, identificabili nel dolo, nella colpa e nella preterintenzione.
In ultimo, è stato affermato che una responsabilità penale per lesioni personali colpose ex art. 590 Cod. Pen. può configurarsi a carico del medico che compia sul paziente un intervento chirurgico nell’erroneo convincimento, ascrivibile a propria negligenza o imprudenza, dell’esistenza di un preventivo consenso del paziente, secondo quanto previsto dall’art. 59, comma 4, Cod. Pen.
Con "responsabilità civile" s’intende definire il rapporto stretto intercorrente tra il concetto di responsabilità e la sua diretta conseguenza sul patrimonio di un individuo, esprimendosi con ciò la "soggezione del patrimonio di una persona alla soddisfazione della pretesa altrui". La responsabilità civile, quindi, sorge dai rapporti di diritto privato che un esercente contrae col proprio cliente, e si caratterizza per un aspetto di tipo patrimonialistico-risarcitorio, contenendo in sé anche il concetto di obbligazione riparatoria imposta al soggetto responsabile.
La colpa grave è ravvisabile nella condotta di colui che agisce con straordinaria ed inescusabile imprudenza, omettendo di osservare anche quel grado minimo ed elementare di diligenza che tutti, in quell’ambito, osservano e avrebbero osservato; in poche parole, si concreta nell’atteggiamento psicologico di colui che agisce in totale difformità nei metodi e nella tecnica rispetto alle regole consolidate scientificamente ed accettate dalla comunità scientifica, che costituiscono necessario corredo alla pratica del professionista, ossia nell’imperizia, nella imperdonabile negligenza macroscopica, assolutamente imperdonabile..
Il legislatore civile fa diretto riferimento al concetto di colpa grave (art. 2236 Cod. Civ.), prevedendo una limitazione di responsabilità del prestatore d’opera, limitandola ai soli casi di dolo e colpa grave, nel caso in cui ci si trovi di fronte a problemi tecnici di particolare difficoltà.
Sul concetto la giurisprudenza recente ha individuato alcuni indirizzi fondamentali concernenti la tipologia di valutazione e graduazione della colpa.
Si rinvengono in sentenze affermazioni che si limitano ad aggettivare, ad esempio con l’utilizzo di superlativi ("minima diligenza", "massima imperizia") le tradizionali formule riassuntive delle regole di condotta, che, spesso, sono individuate quali proprie di ogni agire umano; tali pronunce fanno coincidere la colpa grave con un atteggiamento di disinteresse nell’esecuzione delle proprie funzioni, sprezzante trascuratezza dei propri doveri, massima negligenza, che si sostanzia nell’agire in inosservanza totale delle comuni regole di comportamento, e non osservando quel minimo di diligenza che tutti (anche l’uomo medio!), in quella medesima occasione, avrebbero osservato.
Il riferimento è perciò, nel caso, al modello del "buon padre di famiglia", che concretizzerebbe quella "culpa lata" propria di chi "non intelligit quod omnes intelligunt".
Ulteriore indirizzo che rinvia al concetto di colpa professionale si ravvisa in altre pronunce, ove il riferimento è al grado di anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli schemi normativi astratti di comportamento, tra i quali il dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e diligenza (Cass. Civ., sez. III, sent. n.153/1997). Tali pronunce affermano la colpa grave del professionista nel momento in cui appaiano palesi mancanze di cautele, cure o conoscenze, che rappresentano caratterizzano lo standard minimo di diligenza richiesto a quello specifico professionista, e sono, da tutti i professionisti in quell’ambito, osservate e messe in atto.
In più pronunce la Cassazione, in linea con i principi su esposti, ha infatti affermato che debba porsi una valutazione di rigore crescente quanto più siano elevate le funzioni, i compiti e la qualifica professionale del soggetto agente.
Un indirizzo definito di tipo "relativistico" afferma debbano essere considerate tutte le circostanze che possono influire sull’atteggiamento psicologico dell’agente: la determinazione del grado della colpa deve perciò compiersi rammentando e valutando le qualità dell’agente, per stabilire quale osservanza delle regole che sono state violate si sarebbe potuta esigere da quello specifico soggetto, in quelle specifiche condizioni; per valutare quale diligenza e perizia il soggetto avrebbe dovuto mettere in atto assume perciò rilievo la qualifica professionale dell’agente, la posizione funzionale, le competenze specifiche, le mansioni attribuitegli.
Nell’ottica attuale di una assistenza sanitaria che non è più a specifico carico del singolo, ma esercitata da una pluralità di soggetti in differenti momenti non solo temporali ma anche funzionali, ed a seguito della trasformazione recente dell’attività medica da prestazione intellettuale a carattere individuale a oggetto di attività di azienda, ancorché pubblica, ha fatto sì che l’attenzione degli studiosi si sia focalizzata anche sulla responsabilità della struttura ospedaliera, ciò proprio in un’accentuata prospettiva di tipo organizzativo ed aziendale, dove le prestazioni sono rese, appunto, da una pluralità di soggetti dotati delle più diverse qualifiche.
Occorre precisare infatti che la "struttura" non è altro dagli uomini che la costituiscono, talché parlare di responsabilità della struttura ospedaliera significa trattare anche della responsabilità del Direttore Generale, del Direttore Amministrativo, del Direttore Sanitario, dei dirigenti medici, e del personale sanitario in genere.
Gli interventi legislativi recenti, che hanno portato alla nascita di una pluralità di strutture, e che sono stati volti al creare una unitarietà delle stesse tramite l’individuazione di requisiti minimi comuni, insieme alla attività svolta dal medico "intra moenia" nelle strutture pubbliche, hanno necessariamente portato ad una valorizzazione delle stesse dal punto di vista organizzativo, accentuandone il ruolo di strumenti di garanzia posti a tutela della salute dei cittadini, secondo i parametri stabiliti dalla legge.
Dottrina e giurisprudenza hanno tradizionalmente considerato la responsabilità della struttura sanitaria (sia essa pubblica o privata) quale contrattuale, a partire dalla constatazione che nel momento in cui il paziente è accettato nella struttura ospedaliera si viene a perfezionare tra questa ed il soggetto un vero e proprio contratto. Il servizio erogato dall’ente è reso nell’interesse ed a vantaggio di privati che, dopo averne fatta richiesta, ne usufruiscono: la responsabilità contrattuale dell’ente sorge perciò nel compimento di un’attività dovuta nell’ambito di un rapporto giuridico, pubblico o privato, tra due soggetti, strutturato su di un diritto soggettivo del privato e sul dovere di prestazione dell’ente.
Nella sentenza della Cassazione Civile a Sezioni Unite dell’11 gennaio 2008, n.577, è infatti ribadito come la "[…] Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316) […]".
Nella medesima sentenza si è inoltre sostenuto che vada accolta una "[…] lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori […]".
In tal senso il contratto che viene ad essere stipulato assume le caratteristiche di "[…] autonomo contratto (di spedalità) […]", nel quale la struttura è responsabile sia riguardo a propri fatti d’inadempimento (quale ad esempio la carenza organizzativa, il deficit strutturale o delle attrezzature, l’insufficiente prestazione alberghiera, la carenza o inefficienza del personale medico, ausiliario o paramedico) che al comportamento dei sanitari dipendenti: "[…] si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione) […]".
Infatti è stato più volte affermato dalla Cassazione che la responsabilità dell’ente ospedaliero nei confronti del paziente ha natura contrattuale sia rispetto all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico (ex art. 1218 Cod. civ.), in quanto una responsabilità autonoma della struttura ospedaliera può configurarsi "[…] ove il danno subito dal paziente risulti causalmente riconducibile ad una inadempienza delle obbligazioni ad essa facenti carico, anche in vista di eventuali complicazioni ed emergenze" (49), che anche rispetto all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta in modo diretto dal sanitario (ex art. 1228 Cod. civ.), quale ausiliario necessario anche in assenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, dalla cui sussistenza la responsabilità della struttura prescinde, non trovando fondamento nella colpa, quanto piuttosto nell’inadempimento.
In effetti nel momento in cui il debitore per così dire "originario" si avvale, nell’attuazione del rapporto obbligatorio, dell’opera di un terzo, si instaura un collegamento diretto tra prestazione direttamente effettuata dal sanitario e sua organizzazione aziendale, risultando ininfluente la circostanza che il sanitario possa essere "di fiducia", o comunque direttamente scelto dal paziente.
L’Azienda Sanitaria risponderà quindi per l’operato dei singoli dipendenti secondo il dettato dell’art. 1228 Cod. civ., per cui il debitore che si avvale dell’opera di terzi nell’inadempimento dell’obbligazione, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi ultimi, essendo sufficiente, indipendentemente dal riconoscimento del dolo o della colpa dell’agente, l’individuazione del nesso di causa tra l’espletamento delle mansioni e l’evento secondo il criterio che la giurisprudenza definisce di "occasionalità necessaria", "[…] che si ravvisa quando l’attività svolta dal lavoratore abbia determinato, nella sua estrinsecazione, una situazione tale da agevolare, o comunque rendere possibile, il fatto illecito […]", nel senso che "[…] l’incombenza affidata deve essere tale da determinare una situazione che renda possibile, o anche soltanto agevoli, la consumazione del fatto illecito, e quindi la produzione dell’evento dannoso, anche se il lavoratore abbia operato oltre i limiti dell’incarico e contro la volontà del committente, o abbia agito con dolo, purché nell’ambito delle sue mansioni". In sintesi, la responsabilità che consegue all’esplicazione di un’attività da parte del debitore per mezzo dell’opera di un terzo riposa sul principio ben definito dal brocardo latino "cuius commoda eius et incommoda", secondo cui la responsabilità di una attività svolta appartiene al soggetto che ha tratto profitto dall’attività stessa: la responsabilità dell’ente trova perciò fondamento nel così detto rischio d’impresa, connaturato all’utilizzazione di terzi nell’adempimento dell’obbligazione.
Tale principio non trova applicazione nel caso in cui il danno sia imputabile ad una attività di tipo privato dell’autore dell’illecito, e questo sia proprio commesso nell’esercizio della sua privata e totale autonomia, come anche nel caso in cui sussista l’ipotesi di autonoma ed esorbitante iniziativa del medico, ovvero per fatto commesso al di fuori dell’esercizio delle funzioni specifiche e per finalità estranee o contrarie ad esse, ossia non in rapporto di "occasionalità necessaria" con le attività svolte; ciò determina, infatti, l’inapplicabilità dell’art. 1228 Cod. Civ..
In sintesi, la tendenza attuale è quella di considerare la responsabilità dell’ente in relazione alla complessità dell’azione da questi esercitata, e valorizzando in senso lato il momento organizzativo della prestazione sanitaria (58), della quale l’attività del medico rappresenta un momento di un servizio estremamente più complesso.
Può perciò individuarsi per l’ente una "doppia responsabilità diretta" riconducibile a due titoli autonomi, ossia a due responsabilità distinte che derivano da due differenti fatti giuridici: la responsabilità contrattuale della struttura, autonoma rispetto all’azione individuale dei sanitari, che deriva dagli obblighi relativi all’assistenza sanitaria, frutto dell’azione di una pluralità di soggetti e dell’intersecarsi di una molteplicità di fattori; la responsabilità del medico per il danno ingiusto cagionato. La valutazione della responsabilità concernerà pertanto sia il rischio dell’organizzazione che la colpa del medico dipendente. L’azienda sanitaria sarà quindi chiamata a rispondere sempre ex art. 1228 Cod. Civ. per l’operato dei propri dipendenti (a prescindere dall’accertamento di un fatto illecito di costoro) ed ex art. 1681 Cod. Civ. per l’attività di organizzazione, ossia in caso di inadempimento dell’obbligo di garantire lo standard organizzativo previsto dalla legge a tutela della salute.
Dottrina e giurisprudenza equiparano sul piano della responsabilità strutture pubbliche e private, in quanto i principi fondanti risultano analoghi per entrambe, così come le modalità di fornitura del servizio all’utente (61) ed i conseguenti obblighi verso il fruitore dei servizi. Tale equiparazione del regime di responsabilità civile si giustifica nella constatazione che, indipendentemente dal tipo di struttura, le violazioni prospettabili incidono su beni fondamentali dell’individuo e costituzionalmente tutelati, quali la salute, la vita e la libertà individuale.
Le Leggi n. 19 (62) e n. 20 (63) del 1994, e la successiva Legge n. 639/1996 (64), disciplinano in maniera unitaria la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti pubblici che cagionino danno all’erario, ossia la responsabilità amministrativo-contabile dei dipendenti pubblici o soggetti legati alla Pubblica Amministrazione da rapporto di servizio che provochino un danno alla propria amministrazione, o ad altro ente pubblico, nell’esercizio di pubbliche funzioni o in circostanze legate da occasionalità necessaria con lo svolgimento di pubbliche funzioni.
Il danno cui si fa riferimento è il danno erariale, che consiste nel deterioramento o nella perdita di beni o denaro, oppure nella mancata acquisizione di incrementi patrimoniali che l’ente pubblico avrebbe potuto realizzare. Le ipotesi di danno erariale non sono predeterminate dalla legge, piuttosto possono considerarsi atipiche, in quanto risultano determinate da condotte a forma libera.
I presupposti della responsabilità amministrativo-contabile in conseguenza dei quali un soggetto è chiamato a rispondere sono il dolo e la colpa grave.
Proprio la caratterizzazione specifica del soggetto che ha prodotto il danno e la natura del soggetto danneggiato (l’ente) differenziano la responsabilità amministrativo-contabile dalla responsabilità civile: infatti dalla nozione precedentemente esposta di responsabilità amministrativa, emerge come la stessa operi su un piano diverso rispetto alla responsabilità civile, in quanto diretta esclusivamente a tutela della pubblica amministrazione, e ciò maggiormente dal punto di vista economico: la tutela va infatti intesa rispetto ai pubblici bilanci. La responsabilità amministrativa tutela la stessa Pubblica Amministrazione nei confronti dei danni che le arreca il funzionario o l’impiegato all’interno del rapporto d’ufficio, obbligando il funzionario a risarcire il danno arrecato all’ente a causa della sua condotta.
Ovviamente, proprio per la vicinanza sotto alcuni aspetti tra le varie responsabilità, non è infrequente che possa esservi, comunque, il concorso degli ambiti civile e penale; ma ciò non implica, proprio per il differente giudizio da porsi ed i differenti presupposti legislativi da valutare, una influenza o un vincolo tra valutazioni e giudizi.
La responsabilità contabile-amministrativa si configura sia per i danni subiti direttamente dall’amministrazione, che nel caso in cui la stessa abbia subito un danno indiretto, ossia nel caso in cui sia chiamata a risarcire il terzo danneggiato dal proprio dipendente durante l’attività di servizio, in ottemperanza all’art. 28 della Costituzione che afferma:
"I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici".
Il danno indiretto può essere contestato solo quando di verifichi a carico dell’amministrazione "l’obbligo giuridico di risarcire il terzo, e tale obbligo emerge nella sua pienezza nel momento in cui si sia evidenziato nell’an e nel quantum con un negozio unilaterale (riconoscimento del debito), o bilaterale (transazione) o con una sentenza definitiva di condanna della pubblica amministrazione a risarcire a un terzo un danno prodotto per inadempimento contrattuale o per fatto illecito del proprio dipendente".
Il medico dipendente dal S.S.N. può essere oggetto di una richiesta di risarcimento danni da parte della Corte dei Conti per i "danni indiretti all’erario": in caso di colpa grave del medico la struttura ha il diritto di rivalersi sullo stesso, ossia di pretendere la restituzione di ciò che è stato versato al danneggiato. La struttura pubblica, inoltre, può anche chiedere tramite la Corte dei Conti un risarcimento danni al medico nel caso del così detto "danno di immagine", oppure nell’eventualità del riscontro di spese ulteriori resesi necessarie a seguito di un danno provocato al paziente (quale l’aumento della durata della degenza, un nuovo reintervento, etc…).
In questo senso la Corte dei Conti può considerarsi quale giudice di rivalsa del credito vantato dall’amministrazione nei confronti del dipendente che ha messo in atto una condotta illecita.
Se il fatto dannoso è commesso in concorso da più persone, la Legge afferma che "la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso" (art 1, comma 1quater, Legge n.20/1994, aggiunto dall’art.3 D.L. n.543/1996) e che "i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono responsabili solidalmente" (art. 1, comma 1quinquies, medesima legge).
La responsabilità disciplinare è una forma di responsabilità aggiuntiva rispetto alla penale, alla civile ed all’amministrativa, nella quale incorre il lavoratore, sia esso pubblico che privato, nel momento in cui non osservi gli obblighi contrattualmente assunti.
Per ciò che concerne i medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, la responsabilità disciplinare trova applicazione nei confronti di tutti i dipendenti pubblici ed i dirigenti, ed ha fondamento diretto nel Codice Civile, sul presupposto, appunto, di sanzionare gli inadempimenti contrattuali del lavoratore: l’esercizio del potere disciplinare è strumento atto a prevenire e contrastare la corruzione dei pubblici uffici, seppur in maniera parziale e limitata (non andando infatti a contemplare la sfera politica) ed ha il pregio di chiamare in causa la responsabilità individuale dei dirigenti e dipendenti.
È per definizione una responsabilità soggettiva, con fondamento civilistico, in quanto si basa, necessariamente, sul è presupposto che un certo comportamento sia imputabile all’attore a titolo di dolo o di colpa.
La responsabilità disciplinare di tutti i dipendenti pubblici è disciplinata in generale dall’art. 2106 Cod.Civ. (che fissa il principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione), ed attualmente, in maniera specifica dalla Legge n.15/2009, art.772, dal D.lgs n.150/200973 (di attuazione della predetta Legge) e dal D.L. n.78/201074; la legge statuisce che è la contrattazione collettiva a stabilire la tipologia di infrazioni e le sanzioni relative, determinando i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro. Spetta invece a ciascuna amministrazione, secondo proprio ordinamento, individuare l’ufficio competente per la materia disciplinare, sia per l’istruzione dei procedimenti che per l’irrogazione di sanzioni.la natura giuridica del procedimento disciplinare punitivo e delle sanzioni inflitte è di natura privatistica, costituendo una reazione sinallagmatica, concordata pattiziamente tra datore di lavoro e lavoratore a fronte di inadempimenti contrattuali (del dipendente o del dirigente).
Per espressa volontà legislativa (art.55 D.lgs n.165/2001) le norme hanno forza imperativa, mirando a precludere, attraverso il meccanismo degli artt.1339 e 1419, comma 2 Cod. Civ., la possibilità di qualsiasi intervento in materia della contrattazione collettiva. Inoltre l’art.40 del D.lgs. n. 165 del 2001 (nella modifica introdotta dall’art.54 del D.lgs. n. 150 del 2009) dispone che in alcune materie, tra le quali quella relativa alle sanzioni disciplinari, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti esclusivi previsti dalle norme di legge.
È previsto inoltre l’obbligo di affissione in luogo accessibile, e pertanto conoscibile per tutti i lavoratori, del Codice Disciplinare adottato dall’azienda, la quale deve attivarsi perché lo stesso sia accessibile per conoscenza a tutti i dipendenti, tanto che la non osservanza della pubblicità del Codice determina la nullità della sanzione inflitta, salvo che non si tratti di coportamento immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito in quanto contrario al così detto "minimo etico", o a norme di rilevanza penale.
Nel caso in cui vi sia un contestuale procedimento penale, il D.lgs 150/2009 all’art. 55ter stabilisce che:
1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all’articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all’articolo 55-bis, comma 1, secondo periodo, l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente.
2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l’autorità competente, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale.
3. Se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa. 4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3 il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dalla presentazione dell’istanza di riapertura ed è concluso entro centottanta giorni dalla ripresa o dalla riapertura. La ripresa o la riapertura avvengono mediante il rinnovo della contestazione dell’addebito da parte dell’autorità disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell’articolo 55-bis. Ai fini delle determinazioni conclusive, l’autorità procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell’articolo 653, commi 1 ed 1-bis, del codice di procedura penale.
In sintesi, è sancita l’autonomia dello svolgimento del processo disciplinare rispetto al penale, anche se effettuati in "parallelo".
Per ciò che concerne i dipendenti pubblici, le nuove norme hanno apportato una maggiore attenzione alla misurazione e valutazione delle performance individuali, con estrema attenzione appunto al rigore dell’azione disciplinare ed alla sua effettività, apportate tramite una maggiore responsabilizzazione dei dirigenti titolari del potere disciplinare stesso. L’azione disciplinare, nel settore pubblico, è doverosa, poiché "non risponde (soltanto) ad una logica aziendalistica, ma, almeno in parte, alla logica pubblicistica del perseguimento di interessi generali" (75), e ciò a norma dell’art. 55sexies, comma III, del D.lgs 165/2001, per il quale il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare, per omissione o ritardo, in assenza di giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare ovvero a seguito di valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare che appaiano irragionevoli o manifestamente infondate, comporta la responsabilità disciplinare in capo all’inerte (o colluso) dirigente: ciò non consente, certamente, alcuno spazio a valutazioni sulla opportunità o meno dell’esercizio dell’azione disciplinare stessa.
Le sanzioni disciplinari sono individuate, come detto, dalla contrattazione collettiva nazionale.
I dirigenti del S.S.N. non possono essere sottoposti a sanzioni di tipo conservativo (ossia rimprovero verbale, rimprovero scritto (censura), multa, sospensione dal servizio e dalla retribuzione, cui possono essere sottoposti i dipendenti): l’unica sanzione disciplinare applicabile è il licenziamento (sia esso con o senza preavviso).
Una ulteriore forma di responsabilità è quella derivante, specificamente, dalle disposizioni contenute nei Codici di Deontologia ed Etica specifici delle professioni sanitarie (il Codice di Deontologia Medica, il Codice Deontologico dell’Infermiere, il Codice Deontologico delle Ostetriche, etcc). Ha affermato Francesco D’Agostino: "La deontologia non è una dimensione accessoria della medicina: essa la caratterizza costitutivamente" (76), e riteniamo tale affermazione possa ben dipingere, in verità, ogni professione sanitaria.
I Codici di Deontologia rappresentano invero un corpus di regole di autodisciplina predeterminate dalla professione e dai professionisti stessi, vincolanti per gli iscritti all’ordine che a quelle norme devono quindi adeguare la loro condotta professionale.
Caratteristica primaria di questo insieme di principi e regole è la loro "extragiuridicità": si tratta infatti di norme che traggono la loro origine dal gruppo professionale stesso, e che da questo sono volontariamente osservate come se fossero norme giuridiche. In tempi passati le regole deontologiche supplivano all’immatura elaborazione della medicina legale e del diritto sanitario da un lato, e della bioetica dall’altro, da alcuni autori ritenuta di significato ed utilità ancora attuali nelle problematiche legate alla prassi medica che risultassero irrisolte sia a livello di riflessione bioetica che di positivizzazione normativa, come dimostrerebbe il continuo aggiornamento dei codici deontologici in relazione allo sviluppo della medicina ed al complessificarsi delle sue pratiche.
Proprio per tali motivi i Codici di deontologia nell’ambito delle professioni sanitarie vedono una continua e notevole evoluzione, alla ricerca del necessario adeguamento all’evoluzione della scienza medica ed al modificarsi delle esigenze della collettività, nonché al divenire della riflessione bioetica. Il tentativo è infatti, da sempre, quello di offrire innovative risposte deontologiche a temi di grande attualità e di forte impatto sociale, tra i quali, in particolare, quelli dell’emergenza dei diritti dei malati, del quadro universalistico dell’assistenza, degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti terapeutici, degli orientamenti della bioetica.
I sanitari, oltre che alle norme di legge, sono pertanto soggetto anche alle norme comportamentali canonizzate nei Codici di Deontologia, che trovano applicazione sia nel caso dei professionisti autonomi, che per coloro che operano alle dipendenze del S.S.N..
In tale ambito, vige il principio della autonomia della giurisdizione disciplinare rispetto a quella ordinaria (della magistratura), in quanto la prima è esercitata in via esclusiva dal Consiglio dell’Ordine (o collegio) della professione di appartenenza del soggetto (ossia quello nel quale il soggetto risulti iscritto). Ha infatti affermato la Cassazione che "[…] nei giudizi disciplinari nei confronti dei professionisti, l’individuazione delle regole di deontologia professionale e la loro applicazione nella valutazione degli addebiti attengono al merito del procedimento e sono insindacabili in sede di legittimità, se congruamente motivate, perché esse si riferiscono a precetti extragiuridici ovvero a regole interne alle categorie e non già ad atti normativi" . In generale, la Corte di Cassazione ha affermato che sia l’enunciazione che la applicazione delle regole deontologiche devono essere rimesse alle singole categorie professionali, poiché rappresentano espressione del loro autogoverno, tanto da risultare insindacabili da parte del Giudice di legittimità, data la caratteristica di costituire precetti non aventi portata giuridica.
La complessità che caratterizza l’attività medico-sanitaria rende conto di una serie di obblighi e di doveri, a questa ricollegati, la cui inosservanza può costituire fonte di conseguenze per il professionista sul piano penale.
L’attività sanitaria è certamente diventata un’attività pericolosa: non solamente perché correlata molto spesso alla vita o alla morte di un paziente, ma anche per il rischio, sempre più concreto, per il medico di venire chiamato in causa da un paziente insoddisfatto per presunti o concreti danni alla sua persona (78), sia in ambito civile che, sempre più spesso, in ambito penale.
Il contenzioso in ambito sanitario risulta, effettivamente, in continuo aumento, tanto che negli ultimi anni l’Italia ha guadagnato uno dei primi posti in Europa per numero di azioni legali intraprese contro medici e ospedali per sospetti o presunti errori o disservizi delle strutture sanitarie, sia essa pubbliche che private.
Dal punto di vista del paziente, la crisi deriva certamente dal mutamento della percezione del S.S.N. e dei servizi erogati: gli utenti sono sempre più consapevoli dei propri diritti personali, dei quali pretendono la salvaguardia; sono anche maggiormente (ma forse non sempre idoneamente) informati sulle possibilità delle scienze mediche, così come, a causa della maggiore attenzione dei mass media soprattutto ai casi di cronaca nera concernenti la sanità, hanno una percezione, nella maggior parte dei casi distorta, del rischio connesso con l’attività medica. Si parla di percezione distorta in quanto l’informazione mediatica propone, il più delle volte, aspettative estreme, ma non controbilancia con la corretta informazione circa le possibilità reali attuative della medicina odierna e per così dire "ordinaria" (nel senso non riservata a casi di eccezionale complessità, che richiedono interventi superspecialistici, di non ordinaria amministrazione, e strutture e tecnologie con difficile reperibilità; si pensi al caso delle malattie rare, alla terapia genica, ad alcuni tipi di esami di diagnostica per immagini), tanto da ingenerare nel cittadino aspettative irrealizzabili. Di pari passo, il cittadino sa che può rivalersi sui medici e sulle Aziende, per cui, nel caso in cui si verifichi anche solo una situazione di insoddisfazione (a prescindere cioè dalla reale verificazione di un danno, senza contare, ove questo evidentemente fosse concreto, dalla concreta valutazione sulla sussistenza di un nesso di causa), il contenzioso sembra essere divenuto eventualità quasi certa. Contribuisce al fenomeno la proliferazione di società, associazioni e professionisti che si propongono quali "specialisti del risarcimento", che utilizzano forti mezzi pubblicitari veicolatori, il più delle volte, di un falso messaggio, ossia quello della certezza del risarcimento nel caso di malpractice. Tale fenomeno è, a parere di chi scrive, anch’esso estremamente deleterio nei confronti dell’utente-paziente che non sa e non riesce, in ogni caso, a distinguere tra ciò che realmente è malasanità e ciò che, in effetti, esula da tale concetto, per cui sarà ingannato con facilità da proposte di tal guisa: il risultato di un’azione legale infondata in questi casi non sarà certamente quello atteso, ed il soggetto vedrà, nuovamente, deluse le proprie aspettative.
La situazione è ben ritratta dalle statistica annuali elaborate dall’ANIA sul numero dei sinistri denunciati alle imprese di assicurazione per le due coperture assicurative di responsabilità civile delle strutture sanitarie e responsabilità civile dei medici professionisti. L’analisi mostra nel periodo compreso tra il 1994 ed il 2009 si è più che triplicato, passando da circa 9.570 a poco più di 34.000.
Le denunce relative alle strutture sanitarie sono rimaste in percentuali pressoché invariate nei quattro anni 2003-2007, sino al 2008 nel quale si è registrato un aumento del +10% (circa 18.000 richieste), per arrivare al 2009 con circa 21.400 richieste (+21%); le richieste riguardanti i singoli medici hanno mostrato una costante crescita in quasi tutto il periodo di osservazione con un picco 13.400 richieste circa nel 2007, mentre si sono attestate nel 2008 sui livelli medi degli ultimi 5 anni. Nel 2009, in totale la stima del numero di sinistri denunciati alle imprese di assicurazione italiane è stato pari a oltre 34.000, di cui due terzi relativi a polizze stipulate dalle strutture sanitarie. Il numero dei sinistri è cresciuto in questo anno del 15% rispetto all’anno precedente.
Ulteriore fattore risiede specificamente nella nuova organizzazione del S.S.N., che ha portato ad una ridefinizione non solo dei ruoli del personale sanitario, ma anche delle relative responsabilità.
Una nuova valutazione del sistema sanitario non più come attività del singolo ma quale sistema complesso si rende sempre più necessaria data la definizione specifica non solo dei compiti ma anche dei ruoli e delle specifiche competenze del personale paramedico che è stata operata negli ultimi decenni, che ha portato ad individuare in capo a tali figure di specifici profili di responsabilità.
Il sistema sanità complesso attuale, sempre più improntato all’approccio multidisciplinare, rende conto di tutta una serie di difficoltà concernenti proprio l’attribuzione di responsabilità, riscontrabile anche nella attuale tendenza giurisprudenziale tesa all’ampliamento delle fattispecie di danno ed appunto delle relative responsabilità, nella constatazione che l’assistenza sanitaria attuale non è, il più delle volte, esclusivamente del singolo, ma, in maniera differente rispetto alle molteplici attribuzioni e compiti, di una pluralità di attori che possono essere coinvolti nel processo, tra cui, in maniera sempre più ampia, anche la struttura ospedaliera.
Tal situazione ha avuto importanti ripercussioni sul mercato assicurativo in ambito sanitario, prima fra tutte la diminuzione del numero degli operatori che specificamente si occupano di sanità.
Di pari passo, e proprio in conseguenza dell’aumento del contenzioso, si è registrato un aumento della restrittività dell’operatività delle polizze, sia in termini temporali che nella gestione dei sinistri, assieme ad un aumento dei premi assicurativi: il tasso annuo di crescita dei premi complessivi registrato negli ultimi 10 anni di rilevazione dell’ANIA (1999-2009) si attesta infatti al 12,5%.
Da queste premesse, può evincersi quanto, in realtà, occorrerebbe da un lato una maggiore e corretta informazione al paziente, data da un corretto ed adeguato dialogo tra le parti, e dall’altra l’introduzione di sistemi, a livello gestionale aziendale, che mirino ad un aumento della sicurezza dell’assistenza per tramite di una corretta gestione del rischio, dell’analisi delle cause del danno, e dell’applicazione dei corretti mezzi di intervento e correzione dei processi a tutti i livelli. Anche in ciò, sarebbe auspicabile la cooperazione con il mondo assicurativo, che, come si dirà in seguito, può portare ad una corretta contrattazione per le parti, vantaggiosa per entrambe.